Sono certo che non è un caso!
E ne sono sicuro perché mi succede da tre o quattro anni e con numeri non solo crescenti, ma anche non confrontabili con quelli dei colleghi PCC e MCC con cui ne ho discusso.
Di cosa parlo?
Di clienti, di coachee, che decidono di dedicare i loro programmi di coaching a una transizione, a una trasformazione radicale della loro vita personale e professionale.
Per radicale intendo Amministratori Delegati che lasciano l’azienda per immergersi nel terzo settore.
Coachee che programmano trasferimenti in altri Paesi.
O che decidono di terminare una relazione ormai non più viva e costruttiva.
Executive che avviano una micro-impresa nel settore turistico, magari un agriturismo in un paesino del Sud o all’estero, in un luogo promettente e caratterizzato da una migliore qualità della vita.
Clienti che lanciano servizi web, che inizialmente rispondono ad un’impellente necessità interiore e che poi si trasformano nella loro attività principale.
Senior Manager che diventano consulenti …
Potrei continuare con un’altra decina di esempi.
Se ciò avviene, se il mio coaching è sempre meno legato al fare e sempre più all’essere, se esso è molto più indirizzato a costruire futuri che non a risolvere problemi contingenti, ci sono certamente dei motivi.
È perché “passa” qualcosa.
Questa è la mia interpretazione.
A livello “semplice” potrei dire che mi sono sviluppato in tanti anni “nella pratica e nell’arte del coaching” (storica citazione della definizione di coaching dell’International Coaching Federation, ICF).
Ma non basta!
Non spiegherebbe tutto.
A livello superiore la ragione è che attiro clienti che si rispecchiano in me.
Coachee che cercano e che in me trovano non un teorico, ma uno che quelle transizioni e trasformazioni le ha vissute in prima persona, le ha costruite, le ha approfondite.
Le ha studiate.
Le ha – spero – comprese.
Che nutre un vero interesse verso le transizioni dei clienti.
Che gode nel parteciparvi e accelerarle.
Tutto a vantaggio dell’efficacia e di quell’effimera, ma fondamentale componente del coaching che è la presenza.
E la presenza non si trasforma mai in consulenza, mai in autobiografismo, mai in consigli.
Non è ego. Anzi: il contrario.
Essa è carburante per un servizio sempre plasmato sul cliente.
Sempre fornito col cuore e con la spina dorsale.
Un’accoglienza profonda.
Un reale percorso di conoscenza sia mio che del coachee.
Una mia posizione che è sempre orizzontale.
Da pari a pari.
A voi succede mai di ascoltare una canzone a loop per giorni?
[A me sì; chiedetelo ai miei figli o al mio cane.]
O di cercare come dei forsennati quella precisa pagina di un saggio o romanzo?
O un verso di una poesia letta anni e anni fa?
[Sono sicuro che era in una pagina a sinistra, nella parte alta!]
Si tratta della stessa cosa.
Stiamo cercando inconsciamente quell’invito, quella sollecitazione, quel significato, di cui abbiamo bisogno in quel preciso momento.
Allo stesso modo, secondo me, le persone in generale e i coach e i coachee in particolare si cercano.
E si trovano.
E crescono insieme.
Senti di essere pronto ad affrontare la tua transizione?
Fai delle ricerche sul web relativamente ai professionisti che potrebbero aiutarti: dai loro siti, articoli, video, blog potrai farti un’idea di cosa li animi, di quali siano i clienti a cui più naturalmente si indirizzano, di quali siano le loro expertise principali.
In questo modo, godrai di due effetti secondari molto benefici:
Master Certified Coach
Executive & Transition Coach
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