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A tutto
SCHWA!

A tutto Schwa!

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Perché se vedo lo schwa mi viene l’allergia. Perché le scorciatoie su temi seri, su temi per cui persone soffrono, sono discriminate, perdono la vita, combattono io non le accetto. Eccessiva facilità per me porta alla rapida archiviazione del problema, non all’impegno a risolverlo.

La settimana scorsa ragionavo di diversità, uguaglianza, differenze e negazioni. Oggi parliamo ancora di identità, ma di genere.

 

Come trovo violento e subdolo il racial colour blindness, così trovo stupidamente inutile e inutilmente stupido l’uso dello schwa. Quella specie di “e” capovolta – ovvero il seguente simbolo fonetico: ə –, che dovrebbe sostituire le desinenze maschili e femminili, risolvendo definitivamente e gloriosamente l’annoso problema delle differenze e delle discriminazioni di genere.

Mediante l’uso dello schwa (anzi: dellə ə, per meglio dire), si realizzerà quel sogno di inclusione, che ci porterà di certo verso una società migliore, aperta, equa, plurale. Lə ə come novellə “Solə dell’Avvenirə”: bellissimə!

Perché tanto sarcasmo?

Partiamo da un ricordo: oltre vent’anni fa, lunghi monologhi (da lui definiti “riunioni”) di un capo del Personale con i neo assunti con potenziale. Discorsi tanto formalmente ineccepibili, quanto totalmente distaccati dalla realtà. Lui scriveva libri, teorizzava modelli organizzativi perfetti: un grande teorico, di teorie totalmente ignorate e inapplicate nella sua stessa organizzazione. A livello pratico, in azienda meno del 10% di dirigenti era donna, giusto per fornire un incontrovertibile dato di realtà e ricollegarci al tema di oggi.

E lui come parlava? Ogni – dico OGNI, CIASCUNO – aggettivo, articolo, participio, ogni suono o borborigmo che potesse essere declinato, veniva ripetuto due volte, prima al femminile e poi al maschile, accordandolo col relativo sostantivo. Qualche esempio? “Benvenute e benvenuti a tutte e a tutti”, “Stamane, le vedo e li vedo molto interessate e interessati …”,  “Le nostre giovani laureate e i nostri giovani laureati da noi trovano …”

Un supplizio, una distrazione ininterrotta, un’attenzione che diventava maniacale e che, per giunta, era smentita dalla realtà.

Torniamo allə “ə”. Lo dice anche l’Accademia della Crusca: eliminando le desinenze, restano dei mucchi di lettere e pezzi di parole non più in relazione tra loro, svuotate di significato. Così come, mutatis mutandis, il negare le differenze annulla le persone, le storie e i significati di cui sono portatori e di certo non le include, così l’uso dello schwa non risolve un bel niente, ma crea confusione e imbarazzo, pur auto-assolvendo chi lo impiega.

Sono certo che molte persone utilizzano lo ə in buona, anzi in ottima fede. Penso a un mio splendido coachee e a due miei chiarissimi colleghi, per esempio. Ma il punto a cui sono molto sensibile non è formale, è sostanziale: sostituire “a”, “e”, “i”, “o” e “u” con “ə” significa semplificare, banalizzare, togliersi gli scrupoli, usare e farsi usare da un simbolo, archiviare una questione grave e seria con un semplice cambio di vocale, che – e questo è un altro tragico paradosso – non appartiene neanche a noi, alla nostra storia e al nostro alfabeto. Come dire: adottare una soluzione che non esiste. Lo stesso vale per l’asterisco e la “u” utilizzati allo stesso scopo, ovviamente.

Troppo facile. Ben altra cosa è impegnarsi a diffondere una consapevolezza di genere. Ben altra cosa è denunciare discriminazioni in atto, che da noi sono quotidiane e visibili. Ben altra cosa è approfondire. Ben altra cosa è aprire tavoli, dibattiti, ma non teorici: pratici! E non tra burocrati, politici, capi del Personale del tipo di quello citato poc’anzi, ma nella società, nelle scuole, con gli amici, i parenti, i colleghi.

E noi coach rappresentiamo senza alcun dubbio un modello di ruolo in questo contesto; basta ricordare che la bellissima e potentissima guida rappresentata dalle “ICF Core Competencies” culmina nella competenza denominata: “Facilitates client growth”. Una precisa responsabilità di noi coach a essere partner dei nostri coachee anche nell’integrazione delle nuove consapevolezze, delle intuizioni (insight) e degli apprendimenti nella loro rinnovata visione del mondo e nei loro nuovi comportamenti.

E chi come me non considera il coaching come un semplice mestiere, ma lo vive come un approccio generale alle relazioni, una forma mentis, ecco che questo impegno lo può e lo deve esplicare anche fuori dalla sessione di coaching, ovvero nella vita familiare, sociale, nel lavoro, nelle relazioni.

Delle volte sono pensante, me ne rendo conto … Allora chiudo con un po’ di leggerezza:

« Pe pe

Pe pe pe pe pe pe

Zazuera, zazuera.

A, e, i, o, u, ypsilon »

Lo vedi che neanche nella canzone c’è lo schwa?

 

Qual è il tuo punto di vista a riguardo?

Cosa pensi del mio?

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Gianfranco Nocilla

Master Certified Coach
Executive & Transition Coach
Voice Dialogue Facilitator

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