Fremont
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ITACA
Qualche giorno fa, fedele a un corretto suggerimento, ho ascoltato in automobile la prima ora e mezzo de “Il bisogno di pensare”, testo del 2017 di Vito Mancuso, teologo e filosofo che stimo molto. La cosa curiosa – diciamo così, pur sapendo bene che non si tratta di coincidenza – è che avevo appena deciso di scrivere di “reason why”.
Uno dei primi paragrafi del libro si intitola “Itaca” e contiene delle affermazioni che hanno riecheggiato a lungo in me, amplificandosi. Premetto che sono molto legato alla figura di Ulisse e che Itaca è ritornata più volte nella mia vita, in maniera sempre molto significativa, direi addirittura identitaria.
Vito Mancuso riprende la classica (e abusata) metafora di Itaca come ricerca interiore e senso di appartenenza e riflette sulla propria esperienza e sull’importanza di avere un obiettivo nella vita, confrontandosi con la possibilità di vivere senza una “meta” precisa, cosa che pare riuscire ad alcuni. Egli esplora poi la connessione tra bisogno interiore e il modo con cui si affrontano le sfide quotidiane, che dipende strettamente dall’obiettivo che perseguiamo, ovvero dalla nostra Itaca. Il seguente brano è, a mio giudizio, bellissimo: “Scoprire cosa veramente voglio è essenziale per scoprire chi veramente sono: il mio desiderio mi definisce. La mia Itaca detta la mia rotta. Vi sto dicendo che a mio avviso esiste un’ineludibile connessione tra desiderio interiore e metodo con cui si procede nelle circostanze della vita”.
Con parole meno dotte: lo sviluppo della nostra consapevolezza e il processo di auto-scoperta ci consentono non solo di chiarirci qual è la direzione verso la quale siamo attratti e, quindi, di orientarci, ma ci definiscono tout court. Siamo ciò che cerchiamo, ovvero ciò che dà senso al nostro vivere. E Vito Mancuso aggiunge che l’uomo, proprio in quanto essere umano dotato del bisogno di pensare, non può che essere attratto dal sogno di una vita diversa, rappresentata appunto da Itaca. Un’Itaca, che, forse, deve restare irrimediabilmente irraggiungibile; al più vi ci si può tendere asintoticamente.
Con questo preambolo, capiamo bene che la “reason why”, il nostro “perché” sono molto di più di un meccanico e magari frettoloso esercizio di marketing, di personal branding o di taratura della propria nicchia di mercato: con la nostra “reason why” definiamo noi stessi. Col nostro “perché” creiamo di fatto un campo, su cui si sintonizzano le persone, gli amici, i conoscenti, gli affetti, i colleghi, i sodali, i clienti, i coachee che ritrovano in noi una similitudine di vedute, prospettive, valori e ambizioni.
La profondità del concetto di “perché” si estende alla nostra motivazione interiore, rappresentando ciò che veramente ci spinge all’azione: è il nucleo, la ragione e l’ideale che sottendono e plasmano il cammino personale e professionale di ciascuno.
Come afferma Simon Sinek, “il perché rappresenta ciò che siamo quando esprimiamo il meglio di noi stessi” ed è strettamente legato alle funzioni del sistema limbico, quella parte del cervello che regola il comportamento e i processi decisionali e che è il centro delle emozioni e delle sensazioni che sperimentiamo, come la fiducia, la fedeltà, la soddisfazione successiva al raggiungimento di un obiettivo.
Ed eccoci al mio “perché”; ho seguito alla lettera le istruzioni di Simon Sinek, giungendo a questa formulazione: “Aiutare e accompagnare le persone, per far sì che coltivino la loro essenza ed evolvano in consapevolezza e qualità della vita”.
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