Fremont
Fremont non solo è un delicato film sull’immigrazione, ma anche una descrizione cinematografica di un profondo percorso trasformativo attraverso competenze di coaching avanzate.
BEHIND EVERY BEAUTIFUL THING...
Qualche settimana fa ho partecipato a un interessantissimo workshop sul tema della complexity leadership; durante la prima cena, ci è stato proposto di condividere con i compagni un nostro momento di trasformazione, ovvero di descrivere un episodio che avesse modificato per sempre qualche nostro paradigma, che avesse prodotto un cambiamento irreversibile nella nostra vita o nella nostra visione della vita.
Ciò che mi ha colpito è che la stragrande maggioranza di noi (in realtà ricordo la totalità, ma preferisco lasciare un margine di errore) ha citato momenti trasformativi di grandi difficoltà personali, familiari, politici, di salute o anche professionali. E nel mio cervello è subito riaffiorato questo verso di Bob Dylan, tratto da “Not dark yet” del 1998: “behind every beautiful thing, there’s been some kind of pain”. Il “pain” è chiaro; secondo il mio modo di vedere e di vivere, la “beautiful thing” è il prodotto di quel dolore, che di fatto accelera un processo evolutivo, di rinnovamento, di avvicinamento a una versione più profondamente vera di noi. Processo che non ha termine, sia chiaro.
Bruce Feiler – autore del best seller “Life is in the transitions” – ha il merito di aver condotto una vasta indagine sulle transizioni, denominata “Life story project”: in seguito a degli eventi personali e familiari molto dolorosi, ha deciso di realizzare 225 lunghe interviste ad altrettanti cittadini americani che avevano vissuto una transizione maggiore, che gli hanno fornito una messe di dati e informazioni. Le tante testimonianze sono state poi studiate con attenzione per rilevare pattern, schemi ripetitivi, durate, sequenze, elementi comuni, fasi, anche se è necessario sottolineare che la limitatezza del campione non permette di elaborare teorie generali, di un qualche valore statistico.
Secondo Feiler, all’interno di un innegabile paradigma di continuo cambiamento, i “lifequake” sono quei terremoti di cambiamento nella vita, che conducono a un periodo di grandi sconvolgimenti, transizione e rinnovamento, che può durare anche cinque anni.
Cito qui solo un paio di dati che mi sembrano interessanti:
Indipendentemente dalla loro natura individuale o collettiva, che siano indotti o cercati, le transizioni rappresentano comunque dei periodi sfidanti di dolore, spaesamento, tumulto, che immancabilmente producono vivaci periodi di esplorazione e riconnessione. Riconnessione con chi? Con la profondità di se stessi e con i propri valori e talenti (ricordate la ghianda?), cosa che a sua volta produce nuovi atteggiamenti, nuove relazioni con parenti e amici, nuove avventure professionali, svolte spirituali, transizioni di genere… solo per citare qualche possibilità.
In altri termini: indipendentemente dalla genesi e dalle diversità dei soggetti, un elemento che accomuna ogni storia di transizione è il dolore. Quel dolore o shock che ci fa uscire dalla nostra zona di comfort e ci porta a confrontarci con le nostre vulnerabilità e i nostri doni, allontanandoci dal predominante contesto terra-terra di puri e coattivi execution e performance e producendo spesso uno sguardo più grato e tollerante verso il mondo.
La transizione diventa un morire per rinascere e non è un caso che le transizioni sono sempre associate, in una qualche loro fase, a un rituale, che incarna ed esprime il significato altamente simbolico e spirituale della transizione stessa.
In questo contesto, la variabile tempo assume un ruolo fondamentale. Nonostante si tenda a voler tornare rapidamente alle condizioni di stabilità, le transizioni richiedono tempo: un tempo per rilasciare ciò di cui non abbiamo più bisogno, un tempo per elaborare il cambiamento, un tempo per esplorare, e infine un tempo per collegarsi a una nuova versione di noi stessi. È una lentezza che può sembrare irritante in un mondo di costante accelerazione e alla ricerca di risultati, ma è in realtà essenziale per consentire una trasformazione autentica ed efficace. E qui il coaching risulta la disciplina che meglio delle altre aiuta l’individuo in transizione a rispettare e dare valore a questo ritmo naturale, offrendo al coachee uno spazio sicuro per navigare le incertezze e pianificare il futuro senza pressioni eccessive, alla ricerca della corretta espressione di sé.
Faccio chiaramente qui riferimento al Transition Coaching, a un coaching trasformativo e sistemico, che – ça va sans dire – non sia solo un supporto pratico, bensì un vero e proprio catalizzatore di consapevolezza e trasformazione. Con l’aiuto di un coach, le transizioni si trasformano da crisi da affrontare in straordinarie opportunità per ridefinire chi siamo e cosa desideriamo diventare. Sì, Bob Dylan ha ragione anche questa volta: il coaching ci guida verso una rinascita autentica e sostenibile, capace di trasformare il dolore in potenziale, il cambiamento in crescita, il pain in beautiful thing…
Contattami per avere informazioni sul Transition Coaching e sul progetto Transition Mastery.
Master Certified Coach MCC
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Executive & Transition Coach
Voice Dialogue Facilitator
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Le transizioni rappresentano momenti di cambiamento profondo e inevitabile che, sebbene complessi e dolorosi, offrono l’opportunità di un autentico rinnovamento personale. Attraverso strumenti come il “Transition Coaching”, è possibile trasformare queste crisi in occasioni di crescita, favorendo consapevolezza e un nuovo senso di direzione.
Il coaching ha attraversato profonde trasformazioni negli ultimi 50 anni, evolvendosi da un focus sulla performance individuale a una visione più ampia e sistemica. Oggi, il Transition Coaching aiuta persone e organizzazioni a navigare le transizioni della vita con consapevolezza, autenticità e resilienza, in un paradigma di evoluzione e non di mera performance.
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La Transizione è il passaggio da uno stato all’altro, è cambiamento, trasformazione, evoluzione.
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