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IL GUANTO
DI ŠALAMOV

IL GUANTO DI ŠALAMOV

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Uno dei miei principali interessi, che da trent’anni caratterizzano le mie letture e non solo, è costituito dalla cosiddetta “lagernaja literatura”.

Faccio subito chiarezza sulla mia personale accezione data all’espressione “lagernaja literatura”: per me, fa parte di essa ogni opera letteraria, anche di saggistica, che abbia come argomento l’effetto del totalitarismo sull’individuo, la conseguente disumanizzazione, i “giochi psicologici” che caratterizzano lager, Gulag e i tanti altri ambienti totalitari – alcuni dei quali ormai accettati e legittimati da società e politica, come determinati contesti lavorativi – e i grandi esempi di moralità, dignità e resistenza interiore talvolta ivi presenti. Per me, quindi, sotto questa etichetta va certamente incluso il sublime “Memorie da una casa di morti” di Fëdor Dostoevskij, le principali opere di Primo Levi, oltre ai “legittimi” Aleksandr Solženicyn, Evgenija Ginzburg e Gustaw Herling.

Tra i grandissimi appena citati, di certo l’impatto più profondo in me lo ha sempre provocato Varlam Tichonovič Šalamov, imprigionato per diciassette anni nei Gulag staliniani e autore di numerose raccolte di racconti che descrivono la sua esperienza, confluiti ne “I racconti di Kolyma”.

Vi sono alcuni racconti di Kolyma di tale intensità, umanità e grandiosità, che a distanza di anni preferisco non rileggerli, per serbare le emozioni che suscitarono in me alla prima lettura, anche se la memoria e le sue regole, le associazioni mentali, le mie personali esperienze li avranno probabilmente – anzi certamente – modificati. Che so: la descrizione delle notti immancabilmente abitate da un’assenza di sogni, ma solo dal colore nero (“where none is the number and black is the color”, direbbe Bob Dylan); le ferite che restavano aperte per anni, per lustri; il pino nano siberiano piegato sotto la neve della Kolyma, sempre pronto a risollevarsi al primo segno di primavera, anche se fallace, come il tepore di un falò; la fame che, da bisogno fisico, diventa tormento dell’anima, superiore per urgenza e importanza all’anima stessa e alla spiritualità; le fette di pane nascoste nelle pieghe del materasso anche vent’anni dopo la liberazione…

Un racconto-chiave nella produzione di Šalamov è senz’altro “Il guanto”, uno dei suoi più lunghi, che oggi, contraddicendomi con quanto ho appena scritto, ho voluto rileggere. E mi ha fatto male: troppo, insopportabilmente crudo per la mia sensibilità di oggi. Quindi, non te ne consiglio la lettura, ma voglio però parlare qui del significato identitario del “guanto” di Šalamov.

In estrema sintesi: dopo alcuni anni di lavori forzati, a causa di ciò che gli viene inizialmente diagnosticato come dissenteria, Šalamov è ricoverato nell’ambitissimo ospedale del Gulag. Qui, scopre che la sua malattia è in realtà uno stato molto avanzato di pellagra; riesce però a non farsi dimettere, grazie a una serie di incontri fortunati, che gli permetteranno poi di essere assunto nella struttura ospedaliera come lavorante, riuscendo in tal modo a sopravvivere.

E in ospedale avviene la sua “muta”: la pelle malata viene rimossa e Šalamov si ritrova in breve con “nuove mani”, che gli permettono finalmente di scrivere e di riconnettersi alla sua originaria natura di giornalista e scrittore. Le sue mani da forzato, infatti, deformate dalle ferite, dai congelamenti e dai calli, non gli consentivano da anni di maneggiare oggetti piccoli come un ago o una penna, costringendolo a un destino da zappatore forzato, ovvero alla morte.

Per quanto feroce e raccapricciante, l’immagine non lo sarà mai tanto quanto il contesto stesso del Gulag…

I due guanti, quindi, diventano rispettivamente simboli di un “prima” e di un “dopo”, certo, ma anche di una lunga disumanizzante costrizione contro il proprio status naturale, nonché della ferocia del totalitarismo contro un lento ritorno al proprio “daimon”.

L’autore si sofferma sul concetto che i due “guanti”, per quanto diversi, lascino le medesime impronte digitali, facendo intendere che entrambi “sono lui”, che si tratta comunque di due diversi stati, fasi, espressioni della stessa persona, della stessa unità, di due guanti irrimediabilmente gemelli. Come scriverà Šalamov al termine del racconto, benché il suo guanto sia nuovo, le sue idee maturate in prigionia sulla vita e sulla natura dell’uomo non cambiano…

 

 

“Tutto si è poi risolto in niente e la pelle è di nuovo ricresciuta. Sono ricresciuti i muscoli attorno allo scheletro, ne sono uscite un po’ malconce le ossa, incurvate dalle osteomieliti dopo i congelamenti. Perfino l’anima, evidentemente, si è rimpolpata attorno alle ossa malandate. Perfino l’impronta dattiloscopica è la stessa sul guanto morto di allora e su quello vivo attuale, che regge in questo momento la matita. Ecco un autentico miracolo della criminologia. I guanti gemelli. […] I miei guanti sono due persone, due sosia con lo stesso disegno dattiloscopico – un prodigio della scienza.”

Varlam Tichonovič Šalamov, “I racconti di Kolyma”

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Gianfranco Nocilla

Master Certified Coach MCC
Team Coach ACTC
Executive & Transition Coach
Voice Dialogue Facilitator

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