La critica ha presentato per decenni questo capolavoro come un violento j’accuse verso un determinato modo di vivere la mondanità e l’arte, arrivando ad identificare come destinataria diretta una certa Edie Sedgwick, modella e attrice, musa di Andy Warhol. Ma mi domando: è possibile pensare che l’autore di testi ineguagliabili su parità, integrazione e pace possa descrivere con toni tanto distaccati e aggressivi la caduta di una persona, per giunta individuabile?
È possibile che Bob Dylan arrivi a non mostrare alcuna solidarietà verso una vittima del sistema? Proprio lui, l’aedo della libertà, della non violenza, il ventiquattrenne che appena tre anni prima descriveva (per me meglio di Dante) l’Apocalisse causata dalla cecità e dall’avidità dell’Uomo?
No, resto un coach e non ho virato verso la critica musicale. Ti voglio parlare oggi di “Like a rolling stone” perché qualcosa non quadra. Soprattutto se si pensa che Edie Sedwick nel 1965 era ancora sulla cresta dell’onda e nulla avrebbe fatto presagire il suo funesto crollo, avvenuto alcuni anni dopo.
Quali sono la mia idea, la mia interpretazione? È che – similmente a “Famous blue raincoat” di Cohen – “Like a rolling stone”, oggi come cinquantotto anni fa, risuoni così forte nella testa e nel cuore di chi l’ascolta, e resti inarrivabile sulla vetta delle classifiche perché portatrice di un messaggio complesso, subliminale, che si muove su livelli diversi da quelli puramente razionali, letterari e cerebrali. Come dire: i neuroni comprendono le parole, le orecchie colgono la musica e il ritmo, ma l’anima riceve altro. Sì, sto parlando di Voice Dialogue…
Cosa voglio dire? L’idea che mi sono fatto è che il Premio Nobel per la Letteratura del 2016 qui si rivolge a se stesso, ovvero a quella sua propria parte eccessiva, a quel suo essere gestito dal jet set e dai media, a quel suo modo di interpretare e subire la celebrità, che ha caratterizzato i primi anni della sua ormai più che sessantennale carriera.
E quella Miss Lonely, la tipa che si accompagna a diplomatici eccentrici con gatti siamesi sulle spalle, che frequenta l’alcool troppo da vicino è lui stesso. Ovvero una delle sue modalità. E ora, in forma di canzone, Bob Dylan dice addio a quella sua voce, a quella sua energia, per acquisire nuovi livelli di consapevolezza e di maturità.
Un nuovo Sé che non deriderà più chi lo ammonisce per gli eccessi compiuti. Un nuovo Sé che non deriderà più i matti travestiti da Napoleone. Un nuovo Sé che non delegherà presuntuosamente qualcun altro a vivere la sua vita. Un nuovo Sé, che – questo mi arriva – torna in connessione con la sofferenza, con le difficoltà, con i fallimenti, con la realtà, col dolore, con la fatica quotidiana per conquistarsi la concretezza e l’immediatezza e l’indiscutibile importanza del “next meal”, senza inseguire altri “diamond ring”.
Si tratta quindi di una vera liberazione dal giogo dell’essere una star, un idolo ad ogni costo, dal fare sempre e solo ciò che ci si aspetta da lui. Ora basta, ora Bob Dylan si sente nuovamente libero di esprimere una parte più vera di sé. E se l’addio appare rabbioso, è solo perché il tema è fortemente sentito e il testo è scritto a caldo.
In quali contesti e occasioni ti senti ingabbiato in ruoli dati per scontati dagli altri?
Quale parte, invece, vorrebbe emergere, ora?
Per dire cosa?
Per fare cosa?
Per sentire cosa?